9 marzo 2013

Una cosa divertente che non farò mai più ****


E' un classico che quelle situazioni che "devono" essere divertenti si rivelino invece tali solo superficialmente, nascondendo un nocciolo di tristezza e melanconia. Le crociere non fanno eccezioni, anzi rappresentano, secondo la descrizione di David Foster Wallace, il non plus ultra di questo paradigma. Forse per l'enorme massa di persone, più simile ad un gregge che ad un gruppo di gente pensante - pensante, no di certo, visto che in crociera viene espressamente chiesto alla gente di non pensare a nulla; forse per l'artefatto senso di isolamento e alienazione dal mondo. Fatto sta, a cavallo fra ironia e una strisciante tristezza, da questo breve reportage si evince che sì, la crociera riesce a trasportarti in un revertigo di passività fetale, moti ondulatori acquatici compresi, con camerieri che si prendono cura di te come forse neanche tua madre ha mai fatto, e in modo inquietantemente vicino allo stalking.
La spensieratezza è di certo messa a dura prova dall'anima melanconica di Wallace, ma è impossibile non condividere le sue riflessioni sull'infantilismo implicito nel considerare il relax lo stacco totale del cervello (non dallo stress, ma da qualsiasi ragionamento più profondo del: mi faccio un bagno in piscina o una sauna? o addirittura del: cosa faccio oggi? in crociera è tutto già prestabilito, è tutto già deciso, è tutto già preparato) e un asservimento imbarazzante. In pratica per divertimento si intende passività ultrastimolata. Alla faccia del concetto di Libertà, paghiamo per entrare in un gregge. Ultima beffa è che in capo a tre giorni di trattamento fetale è nella nostra natura considerarci insoddisfatti e defraudati se la cameriera non riempie il cesto di frutta nella cabina tre volte al giorno. Urge riflessione sul perchè non siamo neanche in grado di capire cosa ci diverte e ci soddisfa.
Pensiero costante che accompagnava la lettura: Tolstoj che scuote la testa schifato.

"Una cosa divertente che non farò mai più" David Foster Wallace, Minimun Fax
****/5

8 marzo 2013

Se niente importa. Perchè mangiamo gli animali? ***



Essendo già vegetariana, non ho letto questo libro per convincermi di qualcosa. Immagino tuttavia che molti lo abbiano fatto per la curiosità di sentire "l'altra campana", le ragioni di coloro che non mangiano la carne. Ecco, in questo senso, non so se può risultare utile, forse sì. Può darsi che in giro ci sia qualcuno che non ha mai pensato alla sofferenza degli animali, o a come sono organizzati gli allevamenti intensivi. Mi pare strano ma può darsi. In questo senso, diventa un libro divulgativo e può essere utile. Divulgativo di verità orribili e che nessuno può definire "piacevole" leggere, ma utile a piantare nuove idee in una mente vergine. Ma quante sono queste persone che mai si sono interrogate sull'origine del  petto di pollo al limone che hanno nel piatto? Ben poche, suppongo. La maggior parte dei carnivori sa benissimo da dove viene il petto di pollo, probabilmente ha già sentito descrizioni orribili sull'allevamento dei polli, ma ha deciso di ignorarle e di proseguire per la sua strada. Ecco, in questo caso, questo libro è inutile, perchè insieme alle descrizioni delle pratiche di allevamento, pesca e macellazione, non manca una dose di condanna che raggiunge un livello così ampio da essere scarsamente costruttiva, che ti spinge a dire: va be', carne, no; pesce, no; ma no anche le uova, il latte, il formaggio... e allora, se tutto è una merda, che ci posso fare io? (che è poi il ragionamento che già fanno molti carnivori).
Infine, se si è già vegetariani, e magari come me si è sempre evitato di entrare nei dettagli disumani degli allevamenti, questo libro è un inutile viaggio nella crudeltà umana. Nessun vegetariano si immagina il pollo da allevamento Ercolino cresciuto in lande ampissime, pulitissime e assolate, tirato su a suon di carezze e di parole dolci. Non è necessario indulgere nel dettaglio delle atrocità. Perchè alla fine, mettendo "troppa carne sul fuoco", ci si sente impotenti, e anche a me è passato per la mente che il mio scrupolo morale non è altro che una goccia nel mare. Pensiero subito scacciato, ovviamente. 

"Se niente importa. Perchè mangiamo gli animali?" Jonathan Safran Foer, Guanda
***/5

Abbiamo sempre vissuto nel castello ***


(Le parti selezionate in nero sono spoiler)
Scrittrice tagliente, la Jackson, che riesce con poche parole a creare un'atmosfera quasi tangibile, disturbante nonchè invadente, visto che questa atmosfera diventa il punto saliente dell'intero romanzo.
Tutto è cadente, sporco, in rovina. Sembra di respirare l'odore di chiuso e di immobilità.
Due sorelle vivono da recluse con il vecchio zio disabile nel castello di famiglia. Gli altri familiari sono morti anni prima. A cena, avvelenati. Questo, per darvi l'idea, è l'incipit del romanzo:
Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.
Il romanzo prosegue nella graduale rivelazione dell'inquietante carattere dei tre superstiti e degli avvenimenti di quella famosa cena. Catalizzatore dello stravolgimento che porterà alla crisi finale è l'arrivo al castello del cugino Charles.
Punto debole del romanzo è la penetrazione psicologica dei protagonisti che non riesce incisiva quanto l'atmosfera. Constance rimane bidimensionale e non si capisce perchè copre la sorella, che infine si scopre essere l'avvelenatrice familiare.. Mary Katherine è il personaggio meglio caratterizzato, ma alla luce delle rivelazioni finali non si comprendono del tutto le sue ragioni. Lo zio a parte l'inquietudine che trasmette per la sua mania ossessiva di ricostruire "la" serata non aggiunge molto alla storia. 
"Abbiamo sempre vissuto nel castello" Shirley Jackson,  Adelphi
 ***/5

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